Processioni “sospese”, l’antica storia del dito e della luna

C’è un antico proverbio, molto noto, che recita così: «Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito». Bene, la forte polemica nata dalla decisione di sospendere “a data da destinarsi” le processioni assunta, in unità col Vescovo, dall’Assemblea del Clero della Diocesi di Nocera Inferiore – Sarno sembra attagliarsi perfettamente a questo adagio. Una vicenda nella quale nessuno (o quasi) si è accorto che ci si stava attardando a guardare il dito mentre la vera questione era la luna. Continua a leggere

Quando l’amore è ostaggio del politicismo

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Il cammino parlamentare del ddl Cirinnà presenta, a mio avviso, diversi livelli di lettura. Il primo e più evidente è sicuramente quello di carattere più strettamente politico ed ha contribuito a mettere in luce alcune delle più evidenti contraddizioni e dei più vistosi limiti, sul piano della visione, della classe politica di questo Paese. Il secondo, intimamente connesso al primo ma ben più ampio sul piano delle implicazioni sociali, rimanda a quel senso di frustrazione con il quale, ancora oggi, migliaia di cittadini italiani stanno vivendo l’evolversi di una vicenda dai contorni quasi surreali, giocata sulla loro carne viva e sulla loro vita vera.

Lo scrivo a poche ore dal ritorno nell’aula del Senato del disegno di legge sulle unioni civili. Tema sul quale, dopo il pezzo di qualche giorno fa sul Family day, torno a scrivere su questo blog, anche io con un senso di sincera e sgradevole frustrazione di fronte all’incapacità di trovare una spiegazione ragionevole alla necessità, appunto, di tornare a scriverne. Eppure questa necessità c’è e occorre farci i conti. Perché quel testo, già di per sé un compromesso decisamente al ribasso, non è ancora legge. E anzi, perché rischia di non diventarlo mai. O, peggio ancora, rischia di diventare una “cosa” rimediata, che aggiunge danno al danno, prendendo atto di uno stato di fatto (la vita di migliaia di coppie etero ed omosessuali e dei loro bambini) e, nel contempo, sancendo ex lege la loro condizione di “inferiorità”. Tradotto, suona così: fino ad oggi, le coppie omosessuali (comprese quelle omogenitoriali) esistevano ma non si dovevano vedere né per esse esisteva alcuna forma di tutela o di riconoscimento giuridico. Da domani, esisteranno e forse si vedranno pure. Ma si vedrà anche, ed è qui il paradosso, che non meritano gli stessi diritti di qualsiasi altra coppia, famiglia, unione, chiamatela come vi pare, tanto la sostanza non cambia. E la sostanza, piaccia o no, qui si chiama amore.

E tuttavia, torno a scrivere su questo tema nella sincera speranza che nelle prossime ore questo Paese, attraverso i suoi rappresentanti politici, trovi la forza e il coraggio di un sussulto di dignità che non faccia perdere all’Italia l’ennesimo appuntamento con la storia. Lo hanno scritto bene in una lettera-appello rivolta poche ore fa ai Parlamentari italiani (potete sottoscriverla qui) oltre 400 personalità del mondo della cultura, dello spettacolo, dell’arte e della moda:

Accorgersi di un’ingiustizia e correggerla a metà, significa perpetuarla. È insufficiente non essere razzisti, omofobi o sessisti, è necessario essere operosi nella lotta contro il razzismo, l’omofobia o il sessismo, combatterli ovunque si celino, soprattutto attraverso gli strumenti legislativi in mano al Parlamento.

Un Paese dove tutti i cittadini, di là dal genere, razza, o orientamento sessuale, godono di pari opportunità, è un Paese più ricco, produttivo e felice. Il prezzo dell’esclusione lo paga la società intera.

C’è ancora spazio per ritrovare il senso, anzi il buon-senso, di questo appuntamento con la storia, arrivando all’approvazione della legge così com’è, senza stravolgimenti e ulteriori compromessi al ribasso.

Ammesso che accadrà, questo ovviamente, e vengo alle valutazioni di carattere politico, nulla toglierà all’ennesima pessima prova che i partiti – tutti, compreso quello di Grillo, che di un partito ha assunto tutte le caratteristiche – hanno dato su questa vicenda. Con modalità diverse evidentemente, ma tutte tristemente legate al fastidio di vedere consumarsi, lo ripeto, sulla carne viva delle persone, sui loro affetti e sui loro desideri, una partita fatta di tatticismi, strategie, posizionamenti. Vale, e non sono certo l’unico a pensarlo, anzitutto per i 5 Stelle, ai quali non può non essere chiaramente riconducibile la responsabilità di una battuta d’arresto che ha di fatto impedito l’approvazione in tempi rapidi del ddl. Per carità, la volontà dichiarata di legittimare il dietro front sul “canguro” con il rispetto delle regole democratiche sarebbe anche condivisibile, se non fosse evidentemente il frutto di un goffo tentativo di trovare una spiegazione plausibile ad una mossa squisitamente politicista: costringere il PD a ripiegare su un accordo con l’NCD di Alfano per tornare a gridare allo scandalo. Quale vantaggio questo porti al Movimento e al Paese forse non lo sanno neanche loro. Che del resto credo facciano fatica, almeno quelli che conservano un minimo di buon senso, anche a credere alle loro stesse parole. Perché leggere quegli emendamenti che i 5 Stelle si ostinano a voler discutere – e parliamo del 95% di essi – fa venire la pelle d’oca per il livello di idiozia al quale un Parlamentare della Repubblica può arrivare, affidando a un generatore automatico di emendamenti il destino di una legge e, attraverso di essa, di migliaia di persone. Mi permetto di avanzare l’ipotesi che i grillini la pagheranno questa mossa sul piano elettorale. O forse no, ma a vantaggio di un’anima conservatrice che credo mini dalle fondamenta lo spirito “rivoluzionario” del Movimento.

Non ci fa una bella figura neanche il PD in questa partita, sia chiaro. Con un segretario-premier ancora una volta alle prese con le solite divisioni interne da un lato, e con tutte le contraddizioni di un governo politicamente in bilico tra l’ispirazione riformista e di sinistra che dovrebbe essere propria (e sottolineo dovrebbe) del PD e quella conservatrice e di destra di Alfano. Quanto questa contraddizione faccia bene al Paese e al governo stesso è un problema che prima o poi Renzi dovrà porsi. Lo stesso Renzi che oggi, annunciando lo stralcio dell’articolo sulle adozioni del figliastro, utilizza lo spettro dell’accordo con NCD per mettere in un angolo il Movimento 5 Stelle, sul quale lascia ricadere tutta intera la “colpa” dello stravolgimento della legge Cirinnà. Un capolavoro di tattica, se non fosse che, a inficiarlo, c’è la considerazione che anche in questo caso tutto sta accadendo sulla testa di chi vorrebbe solo vedersi riconosciuto dallo Stato e magari dare tutela giuridica al bambino del suo compagno o della sua compagna.

Per il resto, vuoto totale. Tra gli emendamenti “automatici” di alcuni senatori, la frustrazione omofoba (travestita da difesa dei diritti dei bambini) di altri, il cattivissimo gusto di altri ancora e le risse in aula, lo scenario è tristemente desolante.

E fuori dal Palazzo? Ecco, fuori dal palazzo ancora una volta c’è la vita vera di un Paese che sta avanti e, in larga maggioranza, non ha paura di guardare al proprio presente. Ma che avrebbe voglia anche di lavorare al proprio futuro con più fiducia e con più serenità. È la vita vera di tutte quelle famiglie, eterosessuali o omosessuali che siano, che stanno vivendo con sofferenza queste ore, divisi tra la speranza di trovare finalmente un posto in questa Italia e la paura dell’ennesima occasione persa.

Provate a fare un giro sui social network in queste ore. Sarà difficile trovare parole di rabbia. Sarà molto più facile leggere questa sofferenza. Sarebbe bello arrivassero in aula queste paure, queste angosce, queste sofferenze. Magari riuscirebbero a portarvi un po’ di vita e, perché no, un po’ di realtà. 

In piazza per negare un diritto: il nonsenso del #familyday

foto corriere.it

foto corriere.it

Ho perso il conto delle manifestazioni e dei cortei ai quali, sin da studente (e ancor prima, accanto ai miei genitori), ho partecipato. Ho manifestato contro la guerra, contro riforme della scuola che costruivano un sistema educativo ingiusto e secondo me sbagliato, contro la violenza, contro le mafie. Decine e decine di cortei, piccoli e grandi. Ho sempre creduto, peraltro, che a fare la differenza non fossero i numeri, ma i contenuti e le ragioni della piazza, accanto ovviamente alla consapevolezza dei partecipanti. Per questo trovo del tutto insignificante la guerra di cifre che si è scatenata attorno al #familyday2016. Che fossero 2 milioni o 300 mila fa poca differenza. Il punto è decisamente un altro.

Sin da ragazzino, ho ritenuto che il senso costruttivo delle manifestazioni di piazza fosse tutto nel tentativo di pressione politica che quelle piazze esercitavano nella direzione di garantire l’affermazione di diritti fondamentali e, in ultima analisi, l’allargamento dell’area dei diritti a soggetti ai quali, fino a quel momento, quei diritti non venivano riconosciuti. Così, per dirla più correttamente, più che contro la guerra, ho manifestato per il diritto alla pace; più che contro i ministri e le riforme della scuola, per il diritto all’istruzione e all’accesso allo studio; più che contro le mafie (che del resto sono, per loro stessa natura, negazione dei diritti), per la giustizia e la verità. Ho manifestato per il diritto al lavoro, per quello alla salute, per il diritto alla libertà di espressione. Perché, sia chiaro, qui non è in discussione il diritto (appunto) di tutte e tutti a manifestare e ad esprimere liberamente il proprio parere o il proprio dissenso: manifesterei cento volte per affermare questo diritto.

Ciò che francamente mi sfugge però è il senso di una manifestazione promossa non per affermare un diritto, proprio o altrui, ma per negarlo ad altri. Che fossero 2 milioni o 300 mila, ieri quelli che erano in piazza hanno manifestato per questo: per impedire che uno Stato laico legiferi nella direzione di un allargamento dell’area dei diritti a donne e uomini ai quali, omosessuali o eterosessuali che siano, fino ad oggi quei diritti non sono stati riconosciuti. È questo il punto, allora: trovo davvero incomprensibile darsi appuntamento in piazza per minacciare ritorsioni contro un Parlamento che, dopo anni di oscurantismo e arretratezza, ha finalmente deciso di mettere mano al tentativo di affermare un diritto, di allargare l’area dei diritti. 

Qualcuno, partendo da questa stessa convinzione, si è spinto a definire il Family Day una manifestazione “cattiva”. Io non so se sia la parola adatta. Così come non credo sia utile la strumentalizzazione politica che di tutta questa vicenda si sta facendo. Proprio come trovo dannosa la sovraesposizione delle gerarchie ecclesiastiche in questa moderna e inutile crociata. L’ipocrisia (a proposito, straordinari gli articoli sui manifestanti connessi a grindr), il bigottismo, la processione di politicanti di varia estrazione, le carovane di suore, frati e sacerdoti, sono tutti elemento di folklore e di contorno. Sui quali non val la pena soffermarsi più di tanto. Insisto, il punto è un altro: manifestare contro l’affermazione di un diritto è, se non una cattiveria, certamente una contraddizione in termini e un’espressione di oscurantismo.

Non credo sia un caso il silenzio del Papa su tutta questa storia. Per carità, non mi permetterei mai di tirare per la giacchetta Francesco. Ma, avendo imparato a conoscerlo un po’, non mi meraviglia affatto il suo silenzio. In fin dei conti, si tratta di prendere atto che, ancora una volta, la vita vera delle persone è più avanti rispetto a quanto possiamo immaginare. Per questo, arretrare ora sarebbe un errore gravissimo.

Se proprio un merito tutto questo clamore ha avuto, è stato quello di aver sdoganato un tema e un dibattito che costa ancora, a tante persone, tanta sofferenza e tanta fatica. La legge sulle unioni civili che arriverà tra pochi giorni in aula inciderà, con tutta evidenza, sul diritto di queste persone, compresi i bambini, ad essere felici. E questo è un altro diritto per il quale non esiterei neanche un secondo a scendere in piazza. 

Auguri, #restiamoumani.

Jeremy Rifkin

Jeremy Rifkin

Jeremy Rifkin è uno dei più popolari pensatori sociali della nostra epoca. Conservo gelosamente una copia del suo “La civiltà dell’empatia. La corsa verso la coscienza globale nel mondo in crisi” (Milano, Mondadori, 2010) donatami da una cara amica per il mio trentesimo compleanno. Ve ne consiglio la lettura, certamente impegnativa ma estremamente appagante.

Ma non è di Rifkin che voglio parlarvi, ovviamente. Né della tesi da lui sostenuta in questo saggio straordinario. Ciò che farò, invece, è utilizzare il racconto con cui l’autore apre il suo libro per provare con voi, nei pochi minuti di silenzio che spero ciascuno di noi possa riservare a se stesso in questa notte, a riflettere su quale sia la vera natura dell’uomo. Per riscoprirla, per alimentarla, per comprendere quanto sia stata, appunto, snaturata. E per il mio personale augurio di Buon Natale.

La storia peraltro è abbastanza nota ed è stata oggetto di numerosi libri e studi, ma anche di film, cortometraggi, pièce teatrali e addirittura canzoni e video musicali. Ma tant’è. Il racconto che ne fa Rifkin è questo.

Fiandre, sera del 24 dicembre 1914. La prima guerra mondiale della storia sta entrando nel suo quinto mese. Milioni di soldati sono rintanati in trincee malamente scavate nelle campagne di mezza Europa. In molti punti del fronte gli eserciti avversari sono schierati a poche decine di metri di distanza, a portata di voce. Le condizioni di vita sono infernali: il freddo gela le ossa; le trincee sono allagate; i soldati condividono lo spazio angusto con ratti e parassiti; in mancanza di latrine adeguate, gli escrementi sono sparsi dappertutto; gli uomini dormono in piedi, per evitare di sdraiarsi nel fango putrido dei loro alloggiamenti provvisori; i cadaveri dei soldati uccisi rimangono a decomporsi nella «terra di nessuno», a poche decine di metri dai compagni sopravvissuti, che non possono recuperarli e dar loro dignitosa sepoltura. Mentre le tenebre calano sul campo di battaglia, accade qualcosa di straordinario. I soldati tedeschi accendono le candele sulle migliaia di minuscoli alberi di Natale che sono stati inviati al fronte per offrire conforto ai combattenti, e cominciano a cantare i canti di Natale: per primo, Astro del del ciel, poi molti altri. I soldati inglesi sono sbigottiti: uno di loro, affacciatosi oltre il bordo della trincea, dice che le linee nemiche illuminate sembrano «le luci della ribalta di un teatro». E rispondono con un applauso, dapprima timido, poi sempre più scrosciante. Poi cominciano a intonare le proprie carole come replica ai canti dei nemici tedeschi, che li applaudono a loro volta. Alcuni uomini di entrambi gli schieramenti sgusciano fuori dalle trincee e attraversano la terra di nessuno, avvicinandosi al nemico. Centinaia li seguono. La voce si diffonde per tutto il fronte, e migliaia di uomini escono dalle trincee. Si scambiano strette di mano, sigarette, dolci. Si mostrano l’un l’altro le foto dei propri cari. Si raccontano dei luoghi da dove vengono, ricordano i Natali passati. Si scambiano battute sull’assurdità della guerra.

La mattina dopo, quando il sole natalizio sorge sui campi di battaglia europei, decine di migliaia di uomini (secondo alcuni, addirittura centomila) stanno conversando tranquillamente fra loro. Solo ventiquattr’ore prima erano nemici, ora si aiutano a seppellire i compagni caduti. Le cronache del tempo registrarono anche numerosi incontri di calcio improvvisati. Perfino gli ufficiali di prima linea parteciparono all’evento, ma quando la notizia giunse agli alti comandi nelle retrovie i generali assunsero una posizione assai meno tollerante. Temendo che quell’atmosfera natalizia potesse minare la voglia di combattere dei loro sottoposti, presero immediati provvedimenti per far rientrare le truppe nei ranghi. Così, la surreale «tregua natalizia» finì improvvisamente com’era cominciata. Certo, non fu che un battito di ciglia in una guerra che si sarebbe conclusa quattro anni dopo, nel novembre 1918, e che sarebbe costata 8 milioni e mezzo di morti fra i soli militari, passando agli annali come la più grande carneficina della storia, almeno fino a quel momento. Ma per poche, brevi ore, non più di un giorno, decine di migliaia di soldati uscirono dai ranghi, spezzando non solo la catena di comando ma anche i vincoli di fedeltà alla patria, e dimostrando di essere, innanzitutto, uomini. Nel bel mezzo del terrore e dei massacri, fecero un coraggioso passo indietro rispetto ai propri obblighi istituzionali, per esprimersi a vicenda un sentimento di compassione e onorare la vita altrui.

Nelle Fiandre, quel giorno, i soldati inglesi e tedeschi hanno espresso una più profonda sensibilità, quella che si effonde dal midollo stesso dell’essere umano e trascende i vincoli del tempo e i dettami di qualsiasi ortodossia dominante in qualsiasi periodo storico. È sufficiente chiederci perché proviamo tanta commozione per ciò che quegli uomini hanno fatto. Hanno scelto di essere umani.

Come andò la storia generale nella quale è inscritta questa parentesi di umanità purtroppo è tristemente noto. Ma a volte le parentesi ci aiutano a dare più senso alle cose. Secondo Rifkin, quella sera i soldati espressero la fondamentale qualità umana costituita dell’empatia verso il proprio simile. Secondo me augurarci così Buon Natale può dare più senso a questa notte.

Auguri, #restiamoumani.

Mi chiamo Abdel e ho 16 anni. E vi racconto la vostra miseria.

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Mi chiamo Abdel. Ma potete chiamarmi anche AzizMosiBabatunde. Se volete, potete chiamarmi anche AbebaMakeda. Perché sono un maschio, ma potrei essere anche una femmina. Ormai non importa più. Non importa neanche quanti anni abbia. Ne ho 16, ma potrei averne 25, 5 o 50. Cambierebbe poco. Anzi non cambierebbe nulla.

Dove mi trovo adesso nulla di tutto questo ha molta importanza. Perché finalmente qui conto per quel che sono: un essere umano. Del resto, a pensarci bene neanche laggiù il mio nome aveva un granché di importanza. O almeno laggiù dove ero arrivato dopo quel lungo viaggio: pensavo di trovare la dignità e invece mi sono ritrovato con un numero appiccicato sulla bara. Forse lì da voi i numeri contano di più dei nomi. Sì, sarà così. Bene, allora d’accordo, chiamatemi 151. Ecco, sono 151. Il morto numero 151.

Da dove sono oggi riesco a vedere tutto con occhi diversi. Finalmente ho imparato cosa sia la felicità. Nessuno me lo ha spiegato. Ma questo non mi spaventa, perché in fondo nessuno mi ha mai spiegato nulla nella vita. Ho dovuto capire tutto da me. Ho dovuto capire a che livelli possano arrivare la barbarie e la malvagità. Ho dovuto capire cosa sia l’indifferenza, l’ipocrisia, la paura, la fame, la sete. Tutto questo l’ho capito sulla mia pelle. Nessuno mi ha mai spiegato neanche cosa fosse la speranza. Eppure io continuavo a sentire dentro di me una forza che mi spingeva a credere che un giorno la mia vita sarebbe cambiata. Non sapevo che questo sentimento si chiamasse speranza. Forse mia madre un giorno ci ha provato a spiegarmelo. Fu il giorno della mia partenza da casa. Lei mi abbracciò forte, piangendo, e mi disse proprio così: spero un giorno di poterti stringere ancora. Ecco, ora ho imparato che le speranze possono anche restare tali per sempre. Almeno sulla terra. Perché so che dove sono ora un giorno la riabbraccerò la mia mamma. Non oggi però.

Da qui mi appare tutto più chiaro, finalmente. Sono partito da casa cercando una vita migliore. Nel mio villaggio continuavano a ripetermi che lassù, in Europa, era tutto diverso: avrei lavorato, mi avrebbero curato se mi fossi ammalato, avrebbero fatto studiare i miei figli, avrei avuto un letto vero, cibo, acqua. Certo, mi dicevano, non sarebbe stato comunque facile: mi sarei dovuto spezzare la schiena nei campi 20 ore al giorno per pochi soldi, avrei dovuto sopportare gli sguardi, le parole, i pregiudizi. E soprattutto, avrei dovuto sopportare le fatiche di un viaggio al quale tanti prima di me non erano sopravvissuti. Ma io ero giovane e forte. Ce l’avrei fatta. E la mia vita sarebbe cambiata.

E la mia vita è cambiata davvero. Pensate, ora, nel vostro linguaggio, non è neanche più vita. La chiamate morte, mi chiamate il morto numero 151. Eppure davvero da qui io vedo tutto più chiaro. E voi, che siete rimasti laggiù, mi apparite così piccoli, così miseri, a volte così ridicoli. Si dice così, giusto? Lo sto chiedendo ad Aaqil che è qui, vicino a me. Il suo nome nella vostra lingua significa saggio, quindi ne saprà di certo più di me. Ridicoli, nella vostra misera ipocrisia. Dite che veniamo nella vostra terra a infestarvi le strade e intanto mangiate quintali di pomodori che se non cogliessimo noi, a quaranta gradi sotto il sole e per pochi spiccioli al giorno, li mangerebbero i topi. Dite che veniamo a stuprare le vostre donne e poi quelli che voi chiamate mariti uccidono le loro mogli ormai un giorno sì e uno no. Dite che veniamo a rubare, rapinare, uccidere, e poi non vi accorgete che intorno a voi è pieno di gente in giacca e cravatta che ogni giorno ruba il futuro di un popolo intero, uccide innocenti, violenta la dignità. O forse ve ne accorgete, ma fate finta di niente. Ci dite che non sappiamo fare altro che la guerra e poi ci portate le armi. Innalzate i nostri tiranni, li accogliete, offrite loro gli onori di Stato. Piangete davanti alla televisione e restate indifferenti di fronte alla sofferenza e alla morte. Riempite le vostre chiese e pregate il vostro dio, vi affollate in migliaia intorno ai vostri idoli, e poi covate sentimenti di vendetta, di inimicizia, di odio, di intolleranza. Nella vostra testa, pensate di fermare chi fugge dall’inferno con i respingimenti, con i droni, qualcuno addirittura pensa di poterlo fare con le bombe. Ma davvero credete che una bomba ci faccia paura più della fame, delle gole tagliate, dei nostri figli che muoiono di sete? Ma davvero credete di poter fermare la storia? Davvero credete che la storia si possa cancellare così?

Appena arrivato qui ho incontrato un uomo. Lui si chiama Bruno. Tanti anni fa è partito da un villaggio. Credo la sua terra si chiamasse Calabria (o Campania, Basilicata… fa poca differenza). Era partito da lì per inseguire la speranza. A sentirlo, sembrava la mia storia. Ma voi non lo ricordate più. E parlate di noi, dei nostri numeri sulle bare, con parole incomprensibili: affoghino tutti, se ne tornino a casa. Eppure voi, proprio voi, la dovreste conoscere la vergogna di queste parole…

Da dove sono ora, finalmente, mi appare tutto più chiaro. È vero. Ma ci sono cose che anche da qui non riesco a capire, non mi so spiegare.

Sabato scorso ero su una barca con centinaia di altre persone: uomini, donne, bambini. Paesi diversi, storie diverse, lingue diverse. Ma la stessa speranza. Sabato notte stavo raggiungendo il mio sogno. Era notte, ma io sapevo che sarebbe arrivato il giorno, la luce, la terra. Sabato notte sono finito in mare. So nuotare, è una delle cose che ho imparato da bambino. Sono giovane e forte, sapevo che ce l’avrei fatta. Ho nuotato a lungo. C’era buio, fratelli e sorelle che urlavano, piangevano, si disperavano. Ero in acqua e il tempo passava. Avevo freddo. Intorno a me le urla cominciavano a farsi più lievi e il silenzio sembrava sopraffare il rumore assordante della disperazione. La stanchezza. Il silenzio. Una bracciata. Ancora un’altra. La stanchezza. Il silenzio.

Sono Abdel e sabato scorso avevo 16 anni. Ora non conta più. La mia foto ha fatto il giro del mondo. La mia maglietta gialla e le mie scarpette bianche sono le uniche cose che sapete di me. Io di voi ora da quassù so molto di più. Quando ho chiuso gli occhi per sempre ho smesso di aver paura. Non piangevo più. Ho pianto quando, ormai da lontano, ho visto un giovane italiano che raccoglieva il mio corpo. Anche lui piangeva. Lo vedevo chiaramente da qui. C’era il sole. Avevo galleggiato per ore. Lui piangeva. E allora ho capito che la mia vita uno scopo lo aveva avuto. L’ho capito vedendo piangere quel giovane italiano. Le sue lacrime significavano che in fondo, nonostante tutto, lui era rimasto umano.